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FICHTE

L'Idealismo critico





Il principio della scienza va ricercato restando nell'ambito del criticismo, cioè partendo dalla coscienza trascendentale. Questo principio non può essere la rappresentazione di Reinhold, perché questa si presenta come un fatto privo di spiegazione. Ogni fatto va invece ricondotto al motivo, alla ragione del suo costituirsi, ovvero all'atto che lo pone. La filosofia per Fichte è dunque muovere dal condizionato, cioè dal contenuto della coscienza, per ricercare le condizioni che la rendono possibile.
All'origine della coscienza Fichte pone l'intuizione dell'Io, assimilandola all'io penso di Kant e all'intuizione della legge morale kantiana. Questa, come autointuizione, deve essere un atto assolutamente incondizionato, altrimenti non sarebbe il principio primo: è quindi un fondamento che si pone da sé; ed è un atto perché il suo essere è essenzialmente un porsi. Esso è dunque al contempo un conoscersi e un agire: «Io non sono se non attività.[...] Io debbo nel mio pensiero partire dall'Io puro e pensarlo come di per sé assolutamente attivo: non come determinato dalle cose, ma come determinante le cose.». Conoscendosi, l'Io si trova nel punto in cui pensante e pensato sono presenti come la medesima realtà. Soggetto e oggetto vengono cioè a coincidere e non hanno più una connotazione che li differenzia: è questo il cuore dell'Idealismo di Fichte.
Da una tale coincidenza, Fichte giungerà progressivamente alla conclusione che tutta la realtà finisce per risolversi nell'Io assoluto. Anche le categorie dell'intelletto assumeranno un ruolo diverso: mentre per Kant esse avevano lo scopo di unificare il molteplice, per Fichte invece hanno lo scopo di moltiplicare l'Io nella sua unicità. Egli illustra quindi i tre principi fondamentali che regolano questo reciproco rapportarsi di soggetto e oggetto.

1) L'Io pone se stesso


L'Io pone sé stesso (tesi)
Nella filosofia aristotelica il principio su cui si fondava la scienza era quello di non contraddizione: «A ≠ non A» (A è diverso da non A). La filosofia moderna e la stessa filosofia kantiana pongono invece l'accento sul principio di identità: «A = A» (A è uguale ad A).
Fichte afferma che entrambi i principi sono però da giustificare, in quanto derivano a loro volta da uno più generale: l'Io. Se non ci fosse l'Io infatti, non sarebbe possibile affermare i primi due principi. È l'io che pone il legame logico A = A, e che quindi pone lo stesso A, mentre l'Io non è posto da nessun altro se non da sé medesimo. Poiché è condizionato solo da sé, l'Io si autopone affermando «Io = Io».
La concezione comune ci farebbe pensare che prima vengono gli oggetti e successivamente le funzioni compiute dagli stessi, ma Fichte è categorico nel rovesciare questa credenza. Ciò che viene comunemente chiamato "cosa", oggetto, non è altro che il risultato di un'attività. Nella metafisica classica si diceva: operari sequitur esse («l'azione consegue all'essere»), Fichte ora afferma: esse sequitur operari («l'essere consegue all'azione»).
L'essenza dell'io consiste proprio in un'attività, di natura autocosciente, che viene all'essere in quanto si autopone: il suo pensare è quindi porre, nel senso di creare, secondo la concezione titanica romantica. L'Io fichtiano è, come Autocoscienza, quindi quell'intuizione intellettuale, che Kant riteneva impossibile all'uomo poiché coincidente con l'intuizione di una mente creatrice.
L'Io non coincide con il singolo io empirico, ma è l'Io assoluto, da cui tutto deriva. Questa tesi si articolerà in altri due principi che mostrano la molteplicità degli io individuali ("io divisibili") e l'inesistenza di un mondo esterno.

2) L'Io oppone a sé un non-io


All'Io si oppone un non-io (antitesi)
Poiché non esiste pensiero senza contenuto, una coscienza pensante si costituisce come tale solo in rapporto ad oggetti "pensati". Fichte giunge così ad una seconda formulazione, antitesi della prima: «L'Io pone nell'Io il non-Io», in base al principio spinoziano omnis determinatio est negatio («ogni affermazione comporta la sua negazione»). Il non-Io rappresenta tutto ciò che è opposto all'Io ed è diverso da questo. La necessità del non-io è data dal fatto che occorre qualcosa di esterno perché si attivi la conoscenza.
Una tale realtà esterna, però, non può essere neppure qualcosa di assolutamente indipendente dal soggetto, perché altrimenti si ricadrebbe nel dogmatismo kantiano della cosa in sé, di cui le varie polemiche che ne sono seguite hanno mostrato l'incoerenza: non si può infatti pensare ad un oggetto se non per un soggetto. Ecco dunque che il secondo principio serve a ricondurre il non-io al suo autore, a rimuovere la sua estraneità di dato, e a dare un senso alla conoscenza umana, la quale senza un riferimento logico all'oggetto diverrebbe vacua e inconsistente.
L'attività di «colui che pone» implica d'altronde che qualcosa sia «posto», e quindi lo scaturirsi di un non-io, così come L'Uno plotiniano generava altro da sé per autoctisi. Il non-io è ora all'interno dell'Io assoluto originario, poiché all'infuori dell'Io non può esistere nulla. Ma il non-io, a sua volta, limita l'io posto nel primo principio, il quale non possedendo ancora tutto il contenuto della realtà oggettuale genera l'esigenza di una conciliazione.

3) L'Io oppone, in sé, a un io divisibile un non-io divisibile


Nell'Io è posto un io divisibile accanto a un non-io divisibile (sintesi): io e non-io diventano molteplici
Il terzo principio rappresenta così il momento della sintesi. L'Io assoluto è costretto a porre un "Io" empirico, finito, limitato, e quindi divisibile, da contrapporre al non-Io, anch'esso divisibile. Solo ciò che è infinito, infatti, non può essere diviso. Si giunge pertanto alla formulazione: «L'Io oppone, nell'Io, all'io divisibile un non-io divisibile». L'opposizione tra io e non-io non avviene in modo netto, ma in maniera dialettica, tale che essi, pur limitandosi l'un l'altro, si determinano anche a vicenda.
Mentre il secondo principio si limitava a ricondurre il non-io entro l'Io, lasciandoli però in uno stato di pura contrapposizione, il terzo principio dà luogo alla loro mediazione, con cui l'Io prende coscienza di essere non solo opposto al non-io, ma anche limitato da quest'ultimo, suddividendosi nella molteplicità.
La reciproca limitazione dell'io e del non-io consente di spiegare sia i meccanismi dell'attività conoscitiva sia di quella morale, superando il dualismo kantiano. In particolare:
  • L'Io determinato dal non-io fonda l'aspetto dell'attività teoretica.
  • Il non-io determinato dall'Io fonda, invece, l'attività pratica.
Mentre infatti nella conoscenza l'oggetto precede il soggetto, nell'azione sarà il soggetto a precedere e determinare l'oggetto, il quale sorge per farsi strumento della sua libertà.

Spiegazione dell'attività conoscitiva

Sul piano conoscitivo, l'Io si ritrova dunque delimitato dal non-io, attraverso quel meccanismo che Kant chiamava «immaginazione produttiva», concetto ripreso da Fichte e identificato con la creazione inconscia da parte dell'Io degli oggetti, che nella prospettiva kantiana rappresentavano il noumeno o la cosa in sé. Quest'immaginazione è appunto l'attività che delimita l'Io e che crea il contenuto, la materia necessaria al processo conoscitivo, ma proprio perché è sottratta alla coscienza, la materia ci appare come altro da noi: non sappiamo che essa è la parte inconscia di noi, ce la troviamo «già data». In tal modo, Fichte riesce a rendere ragione del punto di vista del realismo, che non può essere considerato erroneo, essendo giustificato dall'azione necessaria e inconscia della stessa immaginazione produttiva. La superiorità dell'idealismo sul realismo consiste però nel fatto che il primo riesce a rendere ragione del punto di vista realistico, mentre il secondo, che presume di essere più vicino al senso comune, non sa spiegarlo.

L'Io determinato dal non-io (attività conoscitiva): il non-io tende all'infinito a risolversi nell'Io, cioè nell'autocoscienza pura
Fichte descrive quindi i passaggi con cui la coscienza, progressivamente, si riappropria del materiale prodotto dall'immaginazione produttiva: ciò avviene per gradi, attraverso la sensazione, l'intuizione sensibile, l'intelletto, il giudizio, e infine le idee. In questo processo, l'Io passa da un minimo di passività (la semplice sensazione), ad un massimo di attività (l'autocoscienza), scoprendo così che è l'Io ad essere attivo sul non-io, e non viceversa. Accrescendo questa consapevolezza, è possibile avvicinarsi sempre di più, pur senza mai raggiungerla, all'autocoscienza pura, cioè alla coscienza dell'Io stesso.
L'idealismo si mostrerà superiore al realismo anche sul piano etico: il primo infatti comporta la suprema attività e libertà dell'Io, mentre il secondo comporta la passività dell'Io di fronte agli oggetti. Da qui si può iniziare a comprendere come l'idealismo per Fichte sia essenzialmente una scelta pratica. Esso non può essere abbracciato per ragioni puramente teoretiche; l'idealismo infatti può dimostrare la propria superiorità solo al momento di sceglierlo. Viceversa chi non comprende e non afferma la propria libertà nell'attività pratica, resterà inevitabilmente fermo al realismo.
Questo è ciò che la Dottrina della scienza intende chiarire: affermare che l'Io è il principio primo non significa arrivare già all'Assoluto. Se così fosse, il pensiero filosofico sarebbe creatore, poiché coinciderebbe con l'assoluto stesso e con la sua capacità di dedurre da sé ogni altra realtà. L'uomo invece rimane un essere finito, e la libertà con cui afferma sé stesso si limita a ricostruire nella teoria le condizioni di possibilità della coscienza, non a riprodurle nella pratica. In questo senso la filosofia è ben distinta dalla vita: «Vivere è non-filosofare» e «filosofare è non-vivere».[12] La filosofia, cioè, rispetto all'esperienza si pone come pensiero puramente negativo: si distacca dalla vita per poterla spiegare, ma proprio per questo non può surrogarla. In tal modo, sia pure diversamente da Kant, l'idealismo fichtiano salvaguardia la finitezza dell'uomo nel suo rapportarsi al dato empirico.

Spiegazione dell'attività morale

Sul piano morale giunge a soluzione un problema lasciato aperto dalla Dottrina della Scienza: se l'Io infatti è attività incondizionata, restava da capire che bisogno avesse di limitarsi e opporre a sé stesso un non-io, se non per un'esigenza logica rispetto alla quale esso restava comunque superiore. Questo problema viene risolto da Fichte rifacendosi al primo principio (l'Io pone sé stesso): l'Io, cioè, poiché è un continuo porre il proprio essere, non è una realtà statica, ma dinamica. Esplicandosi in una tale attività, occorre che gli sorga contro un'opposizione, un non-io, perché un'attività è tale solo se consiste nello sforzo di superamento di un limite.
L'oggetto, cioè il non-io, si presenta così all'uomo, nell'attività pratica, come l'ostacolo da superare. Il non-io diventa il momento necessario per la realizzazione della libertà dell'Io. In campo pratico l'io si sforza di superare questo ostacolo spostando il limite tra io e non io sempre più in là. Quindi in campo pratico l'io è infinito per il suo sforzo di esserlo (Streben).

L'Io determina il non-io (attività morale): l'Io tende all'infinito a ricongiungersi col non-io, conformandolo a sé sul piano pratico
Come l'io potrà affermarsi solo in qualità di superatore degli ostacoli, allo stesso modo l'uomo deve porsi da solo dei limiti e tendere alla perfezione, attraverso il superamento degli stessi per affermarsi realmente come individuo libero. La frase che raccoglie questo pensiero è: «Essere liberi è cosa da nulla: divenirlo è cosa celeste».
In questo modo, sia pure diversamente da Kant, anche Fichte afferma il primato della ragion pratica, tanto che la sua filosofia può essere chiamata idealismo etico. Egli è il filosofo della borghesia nascente, che trasforma il mondo con il lavoro. Questa trasformazione non è altro che perfezionamento dell'Io stesso. È un processo di arricchimento, senza il non-Io non sarebbe infatti possibile la storia. La legge di questa attività è la kantiana legge morale del dovere che impone alla libera volontà dell'uomo di realizzare la ragione nel mondo. L'etica fichtiana si basa su un progressivo ricongiungimento all'infinito con l'Io originario, superando in un certo modo la propria individualità. Il raggiungimento della perfezione morale è un riconoscersi nell'assoluto, quando l'"Io pone sé stesso" non sarà più una semplice esigenza, ma realtà.
L'io assoluto, tuttavia, non è ancora per noi una realtà, bensì un compito, un ideale, che l'azione morale esige, ma che non può essere dimostrato. L'Assoluto è visto così da Fichte come esigenza fondamentale che costituisce l'essenza dell'Io, realizzabile solo in una dimensione tendente all'infinito. Quella di Fichte è così una filosofia dell'infinito, nel quale consiste la sua componente propriamente romantica. Da ciò tuttavia deriva che l'Assoluto, cioè Dio, non può più essere pensato come un essere in sé compiuto, ma solo come ideale, ovvero l'ideale dell'ordinamento morale del mondo. Fu questa l'origine dell'accusa di ateismo che costrinse Fichte a dare le dimissioni dalla cattedra di Jena. Fichte rispose alle accuse dicendo di non voler distruggere la religione, ma solo di individuare in essa il contenuto essenziale, cioè la fede nella realizzabilità di un mondo morale.

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